Da Alcuni Anarchici udinesi, un’interessante riflessione:
Udine, domenica 28 febbraio 2016
C’è una parola che è stata demonizzata generalmente dal movimento anarchico ed è “potere”. Il potere è il male assoluto, lo Stato, la Chiesa, il capitale, a volte persino l’apparato tecno-scientifico, ma solo per pochi, cosa credete?: non si vuol mica essere estremisti. Una bella pasticca pronta pronta dalla Bayer (chiamarsi I.G. Farben e gasare gli Ebrei è fuori moda) ed è tutto risolto. E poi se mi eliminate anche il medico da chi andrò a confessarmi e riporre eterna fiducia? E il politico no, e il prete no, e il padrone no, e adesso nemmeno il papà di Hiroshima e di tutte le nostre comodità moderne e civili? Siete proprio dei barbari selvaggi!
Quindi sì, insomma, ognuno ha l’idea di potere che si merita, quindi vuol dire tutto e niente, come la maggior parte delle parole che vengono quotidianamente vomitate dai politicanti più vari. In fondo, a parte proprio a pochi convinti autoritari, a chi non piace la libertà? Suona bene, no? Evvia il comunismo e la libertà!, il Partito Liberale Italiano, Casa delle Libertà, il Popolo della Libertà… Chi si direbbe mai amante dell’autoritarismo? Eppure lo sono tutti, in un modo o nell’altro, o quanto meno la quasi totalità degli esseri umani, che esercitino l’autorità o la servano proni, quello sono, fino ai fan della civilizzazione e ai collettivisti, comunisti e socialisti vari cosiddetti “libertari”, che impongono l’autorità della maggioranza sulla minoranza anche se magari non si dicono democratici (ma altri sì), del collettivo (come concetto e come organizzazione formale), del comune, del sociale, della società, della politica, della civiltà sui desideri dell’io, dell’unico, dell’individuo, sul suo… potere.
Oh, che parolaccia! Ma sta proprio qui il punto. Potere, si reitera, vuol dire tutto e niente: è un verbo, impiegato quasi sempre nella sua forma sostantivata, deturpandone il significato, esattamente come i dominatori di ogni società hanno fatto con le parole, creando continuamente neo-lingue per i propri interessi (si pensi all’aggettivo latino sacer trasformato nel sostantivo “sacro” dai cristiani, imponendogli però il senso di sacratus, o si pensi a come utilizziamo per esempio parole nell’accezione che l’autorità gli ha imposto, senza nemmeno fermarci a riflettere sulla loro etimologia e sul loro senso, ché tanto è roba vecchia e noi siamo tutti modernissimi, perché finché non ci trasformeranno in cyborg e anche oltre non ci fermeremo mai di correre avanti alla cieca, di scappare dalle nostre origini selvagge di cui ci vergognamo). “Potere” è solo se stesso, è solo il poter fare, è la libertà, e se si vuole trovargli un sinonimo per il significato che assume una volta sostantivato esso è “potenza”, che può essere la potenza dell’autorità contro il ribelle, la potenza del sovversivo contro l’autorità, la possibilità di agire liberamente, la facoltà di uscire, la dote di scrivere una canzone.
Quindi accanirsi genericamente contro il cattivissimo “potere” – che sarebbe in quell’accezione da chiamare “dominio”, che, a differenza di “potere”, implica il dominus, il signore, colui che signoreggia su qualcuno, il dominatore, e dall’altra parte il dominato – ci colloca almeno idealmente “dall’altra parte”, dalla parte di chi non ha il potere, lo vede come qualcosa di negativo, non lo vuole – il che riporta all’altro fondamentale elemento nominato prima: cioè al fatto che autoritario, cioè funzionale all’autorità, non è solo chi esercita personalmente l’autorità, ma soprattutto chi sceglie di farla esercitare su di sé e indirettamente, ma neanche troppo in-, sugli altri, volenti o nolenti.
Il potere è male, cioè la potenza del singolo. Si preferisce l’idea di essere umili, sfruttati, poveri, vittime, oppressi, proletari, la classe dei miserabili, delle sempiterne vittime. Che disgusto. Eppure non è un fato malevolo, oh no, non esiste quello per la maggior parte dei casi. È una scelta. È una scelta non giocare, lasciare che siano gli altri a plasmare questo mondo, per paura di poter perdere, come se così non si perdesse in egual modo. Starsene in una buco a piangere e ubbidire, senza alzare la testa. E così si creano le classi divine, i raggruppamenti divinizzati perché fra i più vittimistici. E così abbiamo sempre avuto il mito della classe operaia, acerrima nemica del padrone, ma fierissima di fare il suo lavoro di merda (come qualunque lavoro), gli studenti vittime dei cattivi insegnanti o dei cattivi tagli del ministero dell’istruzione (e tutti giù per terra… a leccare le briciole dello Stato) e così via all’infinito, e il rischio delle lotte anti-psichiatriche, anti-razziste e anti-carcerarie oggi è proprio quello di cadere nello stesso giochetto di sacralizzare un nuova classe, essendosi finalmente accorti che il proletariato ha fatto puff: c’è bisogno di una nuova classe di Dio, da venerare e adulare. Quella contro il carcere, il C.I.E. e la psichiatria deve essere una negazione anti-autoritaria, in cui nello psichiatrizzato, nel migrante e nel carcerato si vedono dei potenziali complici, non delle vittime a cui voler bene proprio per l’ontologia che noi, nemici del potere e della potenza, gli applichiamo concettualmente. Da questo non può che venire dell’assistenzialismo.
Bisogna rinunciare a piagnucolare insieme e appassionatamente, sentendosi classe di Dio, e restare nel fango in cui nessun padrone e nessuna autorità ci ha mai ridotti, se non noi stessi. E magari ricordarsi di riprendersi quel potere tanto deprecato, che sarebbe l’unica scelta dignitosa per l’io. Come scriveva Ètienne de la Boétie: «Siate risoluti a non servire più, e sarete liberi». La scelta fra il potere, la potenza, dell’io e lo strisciare nella classe di Dio è individuale, ma una o l’altra sono sempre e comunque scelte. E ognuno ha la scelta che si merita.