premesso che riconosco molte piante e trovo soddisfacente accendere il fuoco con l’archetto…
http://www.finimondo.org/node/1848
«Ci si figuri un gran numero di uomini in catene, tutti condannati a morte, alcuni dei quali siano sgozzati ogni giorno sotto gli occhi degli altri, cosicché i superstiti vedono la propria sorte in quella dei loro simili e aspettano il proprio turno, guardandosi l’un l’altro con dolore e senza speranza. Tale è l’immagine della condizione umana»
Blaise Pascal
Qualcuno afferma che la principale passione triste di cui è intrisa quest’epoca sia quel senso di impotenza generalizzata che si avverte di fronte alla sempre più evidente fine di ogni nobile idea, alla scomparsa di ogni orizzonte straordinario, all’impedimento di ogni azione audace. Davanti alla quotidianità di massacri e devastazioni, del mondo esteriore come dell’universo interiore, nulla sembra più valere un tentativo. Tutto appare vano, mortificato dalla riproduzione di un eterno presente. Dopo aver da tempo speronato l’iceberg fatale, alla nostra titanica società non resta che affondare. Inutile agitarsi, allora?

Quesito interessante da porsi. A chi non coltiva (più) illusioni sulla possibilità di un cambiamento sociale, che cosa resta da fare nel periodo che ci separa dal collasso della civiltà (che leverà di torno — come auspicato un secolo fa per la grande guerra — una infinità di uomini che vivono solo perché sono nati)? Dedicarsi all’edonismo, dicono alcuni, alla ricerca di piaceri materiali in grado di donare anche solo per un attimo l’intensità del vivere. In mancanza di poter godere un giorno del comunismo, che sia l’effimera voluttà a costituire l’ultima linea di difesa di ciò che resta di umano. Dedicarsi all’inventario e alla sperimentazione di tecniche di sopravvivenza, dicono altri, ad imparare come accendere il fuoco sfregando bastoncini o a riconoscere e coltivare piante commestibili e fitoterapiche. In mancanza di poter godere un giorno dell’anarchia, che sia l’intelligenza storica a costituire l’ultima linea di difesa di ciò che resta di umano. Dedicarsi all’uso delle armi, dicono altri ancora, per colpire in ogni modo i responsabili dell’apocalisse incombente, i quali non meritano né perdono né oblio. In mancanza di poter godere un giorno della rivoluzione, che sia la spietata vendetta a costituire l’ultima linea di difesa di ciò che resta di umano.
Non tutti sono d’accordo a prendere atto della triste fine del mondo, naturalmente. Non lo sono i funzionari di Stato, e non lo sono nemmeno molti nemici dello Stato: per tutti questi pare proprio che il modo migliore per allontanare l’angoscia e sconfiggere la depressione sia quello di ricorrere a massicce iniezioni di gaio ottimismo. Poiché non c’è più una opinione da imporre in vista del consenso (non serve, come insegna l’Italia si può anche fare a meno delle elezioni), né una riflessione da stimolare in vista dell’azione (non conviene, data la scarsità di neuroni in circolazione i risultati potrebbero rivelarsi tragicomici), meglio affidarsi ad una narrazione da declinare. Qui, in una auto-allucinazione collettiva all’insegna della mitopoiesi, tutto ridiventa possibile e a portata di mano — la fine della crisi come quella del capitalismo, il ritorno del benessere come quello dell’insurrezione. Ogni iniziativa istituzionale viene accompagnata da comunicati-stampa che sanciscono prodigiose riprese, ogni manifestazione di protesta viene seguita da «considerazioni su…» o «note a proposito di…» che fanno il resoconto di entusiasmanti battaglie. Clamore che serve a coprire come una foglia di fico l’iniziativa in alto o la manifestazione in basso. Raccontarla e raccontarsela — mentre la cinghia si stringe sempre di più, mentre la servitù volontaria si diffonde sempre di più. Il segreto per sconfiggere la passione triste sta tutto qui, nel coltivare qualche interesse allegro e nel saperlo far fruttare. Illusione necessaria per illusione necessaria, in effetti quest’ultima è la sola facilmente accettabile e digeribile, la sola che possa risultare popolare. Altrimenti non resterebbe che dar retta a quel filosofo che rivendicava apertamente la necessità di abbinare alla disperazione teorica una risolutezza pratica. «Quando agiamo, non dobbiamo assolutamente farci influenzare dalla disperazione delle nostre convinzioni», asseriva. Come a suggerire che bisogna sì contrastare il lieto fine spacciato dai politici, l’insulso ottimismo della speranza, perché è fondamentale essere consapevoli di quanto ci circonda; ma che questa lucidità deve costituire uno slancio per l’azione, non farci trattenere dalla rinuncia.
A chi accusava il suo pensiero di incagliarsi in una contraddizione assai complessa, rispondeva così: «Se sono disperato, che mi importa?». Però, no, non si tratta di «schizofrenia morale». Preferiamo parlare di pessimismo entusiasta, come lo definiva un poeta e bandito anarchico tanto tempo fa. Per non trascorrere il tempo che resta chiusi in un bordello, o in una scuola. Né in battute solitarie di caccia, né all’inseguimento di «audience». Per continuare a sognare ad occhi aperti. Per non precludersi ogni avventura. Ed allora, allo scarto da ogni politica, c’è bisogno al tempo stesso di voluttà, di intelligenza, di armi.
Perché, che ci importa se le guerre sono seguite da esodi, che sono seguiti da stragi, che sono seguite da massacri? Che ci importa se gli occhi si spalancano solo per i lustrini, le bocche si aprono solo per i rutti, le orecchie si tendono solo per gli slogan? Che ci importa se al vello d’oro si preferisce la patina di stagno?
In fondo, più la vita è breve, e più viviamo per camminare sulla testa dei re.
«No! Questo mondo decrepito deve diventar giovane ancora,
e una sua pagliuzza dev’essere dura e greve qual monte!
Quel pugno di terra che onniveggente sguardo possiede nel petto
abbisogna di grida impastate di cuore!
Questo vecchio sole, questa vecchia luna camminano senza meta ciechi
stelle nuove ci vogliono per ricostruire il mondo!
Ogni bella fanciulla che mi si presenti allo sguardo
è bella, sì, ma più bella dev’esser ancora!
Iddio mi dice: “Così è, e tu non dir più parole!”
Ma risponde l’uomo: “Così è, ma altrimenti deve essere, e meglio!”
Muhammad Iqbal