da Finimondo:
Un testo intitolato “Contro” l’anarchismo. Un contributo al dibattito sulle identità, già apparso lo scorso novembre in Spagna sul periodico Solidaridad Obrera (organo ufficiale della CNT), è stato da poco tradotto in francese e pubblicato sul sito lundi.am (organo non ufficiale del Comitato Invisibile). Questa fin troppo plateale corrispondenza di politicosi sensi fra sindacalisti libertari spagnoli ed intellettuali blanquisti francesi, entrambi bramosi di organizzare gli altri, ci sembra troppo interessante e troppo interessata per essere ignorata. Difficile imbattersi in una più ipocrita lezione impartita a chi non trova posto in questo mondo.
Abbiamo così pensato bene di rendere pubblico anche qui in Italia questo imbarazzante testo. E abbiamo pensato male di farlo seguire da un nostro imbarazzato contributo.

«Contro» l’anarchismo. Un contributo al dibattito sulle identità
«Ricominciare vuol dire: uscire dalla sospensione. Ristabilire il contatto tra i nostri divenire»
Tiqqun
Molti dei nostri cominciano a interrogarsi sulla questione delle identità: cos’è l’identità? Come si articola? È interessante o strategicamente raccomandabile mostrare le bandiere identitarie nel mercato dei processi rivoluzionari?
Tante domande che affronteremo in questo testo cercando di portare una prospettiva diversa a questo dibattito.
Per identità intendiamo il processo simbolico e strutturale di identificazione ed appartenenza a un gruppo, e anche di separazione. È necessario operare una distinzione tra le identità imposte dal biopotere (donna, nero, grasso, ecc.) e le “identità rivoluzionarie” che fanno parte dell’auto-definizione in base alle diverse organizzazioni, ai collettivi e alle individualità (anarchico, comunista, nichilista, ecc.). Queste ultime non sono imposte da simboli discorsivi, sociali e linguistici storicamente determinati dal potere, ma piuttosto dagli individui stessi.
In molti casi, le identità imposte dal biopotere sono categorie di oppressione. Essere assegnata “donna” non fa di te una donna, ma impone una categoria sociale con tutto ciò che significa e comporta. Da parte delle persone oppresse, riappropriarsi, ridefinire le categorie imposte costituisce, nella maggior parte dei casi, un passaggio necessario per articolare un empowerment collettivo a partire dall’identità. Come dice Nxu Zana, donna indigena e femminista:
«Voglio dire che mi sono state imposte una serie di disposizioni cui dovevo adempiere per il fatto di essere una donna, e se non lo avessi fatto sarei stata giudicata, punita, emarginata, stigmatizzata e anche violentata.
Non sono d’accordo con questo, ma non negherò mai la realtà del mio corpo e ciò che essa implica nel mio gruppo, nella mia storia, nella mia vita personale e collettiva; perché sbarazzarsene significa negare una realtà e, nella mia esperienza, cercare di dimenticare se stessi è una menzogna».
Per quanto riguarda le identità imposte, bisogna riconoscere che la loro funzione coercitiva come la loro riappropriazione avvengono a volte chiaramente nel quadro di una lotta discorsiva, simbolica e materiale che si svolge ogni giorno, dappertutto. D’altro canto le “identità rivoluzionarie” nascondono anche una serie di sottigliezze che ci infastidiscono.
Affermiamo senza timore che dichiararsi “anti-sistema”, “anarchico” o con qualsivoglia etichetta similare, significa oggi entrare nella logica del potere. Questa affermazione non è una semplice provocazione: è una necessità strategica e concettuale. In poche parole, nel momento in cui alcuni individui o gruppi si definiscono “anarchici” (o qualsiasi etichetta simile, ovviamente), essi assumono volontariamente un volto riconoscibile agli occhi del potere e, di fatto, si separano dal resto della popolazione. Affermiamo che la logica della separazione è sempre la logica del potere. Questa assegnazione identitaria consente allo stesso modo di segnalare gli individui/collettivi, di attirare l’attenzione su di loro; ora, il potere sfrutta tutti coloro che indossano maschere così riconoscibili. Per il potere è quindi molto più semplice isolare, reprimere ma anche erigere un mostro agli occhi di molti per poter mantenere la separazione che quegli stessi anarchici hanno creato. I risultati prevedibili di una tale strategia sono l’isolamento, l’identificazione e la repressione. E soprattutto, in definitiva: un’incredibile impotenza.
Il potere, prima di volerci distruggere (come possiamo leggere in molti testi distribuiti negli squat dei nostri quartieri), cerca più che altro di “produrci”. Produrci come soggetti politici: come anarchici, anti-sistema, radicali, ecc. Produrci per potere, a posteriori, neutralizzare più facilmente ogni tentativo di organizzazione. È tempo di lasciarci tutto questo alle spalle. Di fronte alla separazione generata dalle “identità rivoluzionari”, noi desideriamo piuttosto dissolverle, cioè renderle indistinguibili, passare inosservati, mantenersi in certo qual modo nel radar del potere ma anche muoversi nei luoghi che abitiamo, insieme, con le persone che ci circondano, senza proclamare nient’altro che la pratica che parla da sé.
La dialettica che ne consegue è la seguente: essa parte da una data ideologia prestabilita (con l’identità ancorata che le è concomitante) e da una forma completamente isolata, a partire da questa esteriorità, questo vuoto. Essa pretende di abbassarsi alla materialità del mondo per “dirigere le masse” e ottenere così questo o quell’obiettivo. Si tratta di una politica da extraterrestri responsabile di gran parte del disastro in corso: è vitale rovesciare questa dialettica. Ci sembra più giudizioso partire da una data situazione comune, da certe necessità e camminare insieme, per gruppi di persone eterogenee senza alcun genere di “identità rivoluzionaria”; a partire da questo, dalla nostra quotidianità, dai luoghi che abitiamo e con le persone che ci circondano, costruire la pratica collettiva che ci conduca ad una strategia rivoluzionaria basata sull’ideale più libertario che vogliamo. «Una comunità non si sperimenta mai come identità, ma come pratica, una pratica comune» (Ai nostri amici)
All’interno di questo conflitto, ci sorprende che una domanda essenziale come «Cosa ci apporta esattamente il fatto di dichiararci anarchici?» non venga formulata. Siamo ancorati e impantanati in vecchie tradizioni rivoluzionarie, perdiamo la chiarezza dell’evidenza che è sotto i nostri occhi. Avanzare questo aspetto ci sembra fondamentale. Proclamarsi anarchici o con qualsivoglia identità rivoluzionaria non ci facilita assolutamente in nulla, non aumenta il nostro potenziale rivoluzionario e non ci aiuta ad organizzarci. In più ci isola e ci rende un facile bersaglio per la repressione. Le identità ideologiche sono un pilastro su cui si basa il nemico e quindi spetta a noi rinunciarvi. Foucault scriveva: «forse l’obiettivo principale oggi non è scoprire, ma piuttosto rifiutare ciò che siamo». Assumere questa premessa è soprattutto un esercizio di umiltà e di sincerità. Ciò non significa che dovremmo dimenticare noi stessi, e ancor meno i nostri morti, ma piuttosto che bisogna incominciare in un’altra maniera.
Partiamo dal seguente punto: il contenuto di una lotta risiede nelle pratiche, nei mezzi che adotta più che negli scopi che proclama. È inutile partire con una borsa stracolma di intransigenze identitarie superflue, di un purismo raffinato e di radicalità morale se ciò genera solo paralisi collettiva. Agendo a partire dai luoghi che abitiamo e sviluppando forme di vita, non emettiamo alcuna grande pretesa ideologica ma piuttosto piccole verità comuni, all’interno di un processo complesso, dinamico e in certe occasioni contraddittorio. È in questo punto che risiede la possibilità di far crescere il nostro potenziale rivoluzionario.
Infine, desideriamo segnalare il divorzio che si produce in molteplici occasioni tra il mondo militante che ci appare come un ghetto (con tutte le sue identità ideologiche) e la vita quotidiana che consideriamo centrale. In altre parole: questi spazi non affrontano aspetti di base e necessari per la vita di tutti, come ad esempio la casa, i trasporti o il lavoro. Fare conferenze, dibattiti e mobilitarsi per organizzazioni diroccate situandosi in un quadro puramente ideologico ed identitario è una parte del problema. Dobbiamo ritornare sulla Terra in fretta. È necessario demolire i muri che abbiamo costruito attorno a noi. Questa scissione tra il mondo militante/identitario e la centralità della vita quotidiana è un ostacolo da superare. Dobbiamo operare un cambiamento di coordinate basando la nostra organizzazione su ciò che è veramente politico, ovvero costruire altre forme di vita con le persone che ci circondano. Questa scissione è anche ciò che spinge molti militanti ad abbandonare la lotta alla comparsa dei primi dubbi individuali: ciò è dovuto al fatto che questa lotta non tiene conto in modo essenziale degli aspetti centrali della vita.
Solo una esteriorità nei confronti della vita rende ciò possibile. Al contrario, è impossibile ritirarsi da ciò che si vive quotidianamente. È necessario evitare ad ogni costo di separare una sfera militante o identitaria e un’altra sfera corrispondente alla “vita”; il nostro compito è quello di dissolvere le identità in modo di passare inosservati e di organizzarsi per assumere le necessità delle nostre vite e poter mettere collettivamente in pratica le nostre aspirazioni.
Noi crediamo fermamente che la lotta sia qualcosa di diverso da ciò a cui siamo abituati. Non ci sorprende che in certi spazi molte persone finiscano stremate dalla loro attività militante, sfinite, svuotate dall’impotenza a cui sono ridotte. È impossibile dissociare la lotta e la vita, allo stesso modo in cui non possiamo separarci da chi ci circonda nel nome di qualsivoglia identità ideologica. Le relazioni di vicinanza e di amicizia, semplici e immanenti, costituiscono il cemento su cui costruire un appello all’insurrezione. Questi legami sono i soli in grado di sostenere una situazione d’emergenza rivoluzionaria; incoraggiamo inoltre la proliferazione di questi legami e li privilegiamo nei nostri differenti modi di organizzarci. Il gioco delle identità ideologiche costituisce un peso su questi legami ostacolandoci nella costruzione di un’altra maniera di abitare il mondo.
Per un anarchismo senza dipendenze
Calimero, il piccolo sindacalista libertario, è in perenne crisi di identità. Gli altri abitanti della corte non lo riconoscono, lo snobbano, lo mortificano. Lui piagnucola, strilla, pesta i piedi, ma poi alla fine fa fagotto e zampetta via. Che rabbia, che impotenza! Vorrebbe diventare grande, metter su famiglia, essere rispettato, farsi un nome e un posto nella società, invece… resta piccolo, solo, spesso deriso. È un’ingiustizia però. E la colpa, sapete di chi è? Di quel colore nero appiccicato alla sua figura. Nero, capite? Come le tenebre, come il crimine, come il Male. Fa scappare la gggente! Dopo anni di esperienza, Calimero se ne è reso conto e vuole porvi rimedio. In suo soccorso è giunta la Tiqqunina con la sua lavaidee.
Pur facendo il sindacalista nei quartieri poveri, Calimero pensa e si esprime come un broker dei quartieri ricchi. Per lui se si spende militanza è per fare un investimento di movimento. Ne vale la pena solo se poi c’è un guadagno almeno in potenza. Il suo cruccio è questo, formulato magistralmente fin dall’inizio: «È interessante o strategicamente raccomandabile mostrare le bandiere identitarie nel mercato dei processi rivoluzionari?». Naaaa, non lo è. Tutto quel nero sulle bancarelle del mercato va rimosso, non promette candore e letizia, fa sudiciume. Laddove c’è il nero, i clienti si spaventano e non si avvicinano. Dove c’è il nero, arriva la polizia a fare controlli. Un’evidenza sotto gli occhi di tutti.
Calimero ha pure le sue ragioni. Solo che non tiene conto di un particolare. Per lui, nero è il colore di una merce in vendita che ha una scadenza e che prima o poi andrà fuori moda. Per lui, nero è il colore di un’uniforme che prima o poi si farà lisa. Per lui, nero è il colore di una identità ideologica che non funziona più. Una sorta di fuliggine che va lavata via. Ma chi non fa il sindacalista broker, e tanto meno è animato da spirito politico, sa bene che «ogni vera libertà è nera».
Contrariamente a quanto si affannano a ripetere i suoi numerosi detrattori, l’anarchismo non è un complesso di dati caratteristici e fondamentali che consentono l’individuazione, ovvero una identità. È un insieme di idee e pratiche portate avanti da chi pensa che la libertà sia incompatibile col potere, e si batte per affermare la prima contro il secondo. Essere contro l’anarchismo, quindi, significa essere in qualche modo a favore dell’autorità, pensare che essa — in una delle sue molteplici forme — possa permettere, proteggere, favorire la libertà.
È evidente che non è un obbligo essere anarchici. Non è comodo, non è popolare, non è conveniente, può essere periglioso. E infatti la stragrande maggioranza dell’umanità, che neanche sa cosa sia l’anarchismo, non lo è di certo. Però, quei pochi che lo sono, quelli che pensano che l’odiata autorità sia nemica mortale dell’amata libertà e viceversa, perché mai dovrebbero vergognarsene? Perché dovrebbero nasconderlo? Perché dovrebbero negare la realtà delle proprie idee? Forse perché queste non «funzionano»? Sarebbe una considerazione sbalorditiva nella sua duplice stupidità. Sia perché l’anarchismo ha più a che fare con l’etica che con la politica (ciò che è giusto è più importante di ciò che funziona, alla faccia dei calcoli strategici), sia perché non ci sembra proprio che una qualsivoglia configurazione del potere abbia mai «funzionato» nel dare felicità agli esseri umani e bellezza alla vita.
Calimero si definisce libertario, le sue idee lo spingerebbero verso l’anarchismo. Ma è anche un sindacalista-broker e i suoi affari politici lo spingono ben lontano dall’anarchismo. Questa contraddizione — vecchia di oltre un secolo — lo manda in corto-circuito, come si percepisce dalle sue parole. Prima opera una distinzione fra identità imposte dal «biopotere» e identità autoimposte dagli individui, poi si sbarazza di questa distinzione e le mescola allegramente. Con sprezzo del ridicolo ci comunica candidamente «che dichiararsi “anti-sistema”, “anarchico” o con qualsivoglia etichetta similare, significa oggi entrare nella logica del potere» perché, così facendo, ci si separa dal resto della popolazione e si facilita la repressione. Più che un concetto strategico, un ragionamento bislacco. Già non si capisce quale sia il vero nodo del problema, se l’anarchismo in sé o la sua pubblica affermazione. Se l’isolamento dalla popolazione o la repressione che esso facilita. Anche qui, in piena confusione, Calimero mischia le carte. Vuol dire che gli anarchici dovrebbero smettere di essere anarchici oppure che dovrebbero far finta di non esserlo per meglio mescolarsi tra la folla? Eppure, lui che vuole «ritornare in fretta sulla Terra» dovrebbe essersi ben accorto che esistono un sacco di anarchici dichiarati che non finiscono affatto nel mirino della repressione (la quale non è così sciocca da dare la caccia a tutti coloro che di tanto in tanto sventolano una bandiera nera). Di fatto ci sono un sacco di persone dabbene fra gli anarchici dichiarati, alcuni dei quali godono pure di pubblica stima: professori universitari, avvocati, artisti, operai in fabbriche d’armi, assistenti sociali nelle carceri… (fra i comunisti, poi, si annoverano perfino sbirri e magistrati). Inoltre, se dichiarandosi nemici del potere si entra nella sua logica, allora per uscirne cosa bisognerebbe fare? Dichiararsi suoi amici? Stare zitti e lasciare parlare gli altri, gli zeloti del pensiero unico democratico? Ma, dato che il linguaggio crea mondi, in tal modo non si farebbe altro che rassegnarsi al mondo del potere o addirittura confermarlo.
Febbricitante, Calimero complica ulteriormente il suo ragionamento sostenendo che «Il potere, prima di volerci distruggere… cerca più che altro di “produrci”. Produrci come soggetti politici: come anarchici, anti-sistema, radicali, ecc». Quindi i sedicenti anarchici non solo fanno il gioco del potere, ne sono un prodotto! Fanno il suo gioco perché sono sue creature! Ebbene sì, lo ammettiamo: che il potere produca soggetti politici non solo fra i difensori dell’ordine, ma anche fra i sovversivi, è innegabile. Basti pensare nel passato a ministri come Juan Garcia Oliver e Federica Montseny, oppure nel presente a consiglieri comunali come Benjamin Rosoux e Manon Glibert. Soggetti politici prodotti dal potere sono infatti tutti coloro che vogliono conquistarlo, amministrarlo, consigliarlo, correggerlo, sostituirlo. Ciò detto, bisogna proprio essere dei babbei per credere che il potere produce chi vuole distruggerlo (se lo fa, avviene involontariamente, così come il nazismo produceva partigiani; ma a nessuno verrebbe in mente di sostenere che i partigiani erano «identità ideologiche» che si separavano dal resto della popolazione). Di fatto il potere produce solo autoritari, ma talvolta riesce a «corrompere» alcuni anarchici affascinandoli con le sue sirene.
Nel suo fervore anti-anarchico Calimero giunge ad un’altra affermazione bizzarra. A suo dire «responsabile di gran parte del disastro in corso» non è lo Stato, il capitalismo e quant’altro; la causa dell’alienazione di massa oggi imperante non ha nulla a che fare con la propaganda e con la tecnologia — no, è tutto demerito della «politica da extraterrestri» messa in atto dalle «identità rivoluzionarie». Insomma, se il potere domina incontrastato sulla Terra è grazie ai pochi isolati sedicenti rivoluzionari che dalla Luna incitano ad abbatterlo, mica ai molti influenti sedicenti non-rivoluzionari che sulla Terra lo sostengono, lo giustificano, lo consolidano, lo consigliano. Misteri della dialettica.
Ad un certo punto il broker che è in Calimero sbotta, sbalordito che nessuno si sia posto la domanda-chiave di ogni buon investimento: «cosa ci apporta esattamente il fatto di dichiararci anarchici?». Non essendo interessato ad esprimere le proprie idee per iniziare a sfidare l’ideologia dominante e creare il proprio mondo, Calimero chiede soltanto dove sia il vantaggio, il profitto, l’utile. Da nessuna parte, ovvio! La polizia ci sorveglia ed i clienti fanno acquisti sulle altre bancarelle del mercato della politica. Ispirato dalla Tiqqunina, per farci capire quale conclusione trarre Calimero si serve di Foucault: «forse l’obiettivo principale oggi non è scoprire, ma piuttosto rifiutare ciò che siamo». Rifiutare ciò che siamo agli occhi dello Stato, ovvero suoi cittadini, è il minimo che si possa fare. Ma rifiutare ciò che siamo agli occhi di noi stessi… e non per codardia o ipocrisia, ma per «un esercizio di umiltà e di sincerità»?
Imbarazzante, davvero. Sembra già di sentirla, la Tiqqunina, con la sua voce da stronza: siamo alle solite, Calimero! Tu non sei nero, sei solo sporco! Un’immersione entusiasta in una situazione, una vigorosa strigliata di lavaidee, e oplà! Dopo un istante ecco Calimero riemergere in una pioggia di applausi nelle nuove vesti di cittadinista sorridente e candido come la neve, pronto a pigolare lodi ai miracolosi effetti sbiancanti della politica. Si capisce fin troppo bene perché la Tiqqunina autoritaria francese abbia accarezzato il Calimero libertario spagnolo che su un settimanale anarchico ha invitato gli anarchici a rifiutare ciò che sono, a ripulirsi del proprio anarchismo.
Quanta amicizia politica nella loro reciproca ricerca di consenso popolare! Quanta comunanza d’intenti nella loro smania di organizzare un piccolo pezzo di società! Quanta condivisione di interessi nel far sì che la gggente rimanga tale! Ci ha commosso vedere questa sintonia nello snobbare le iniziative volte a diffondere le idee (come le conferenze o i dibattiti) e salutare quelle dirette a soddisfare bisogni (come l’alloggio o il lavoro). Perché riempire lo stomaco altrui procura riconoscimento, manovalanza, reputazione, come ben sanno sia i preti (dediti all’assistenzialismo caritatevole nelle parrocchie) che i bottegai militanti (impegnati nel lavoro politico sul territorio). La consapevolezza invece a cosa serve? Non si controlla, non si organizza, è pure pericolosa perché potrebbe rivelarsi un giorno controproducente. A furia di riflettere, infatti, qualcuno potrebbe giungere a conclusioni scomode. Ad esempio, che non si arriva alla libertà attraverso l’autorità. Che è ridicolo partire con una borsa stracolma di desideri insurrezionali, di aspirazioni sovversive e di radicalità retorica se ciò genera scranni comunali e interviste ai media (ma non bisognava passare inosservati? ma non era impossibile dissociare la lotta e la vita?). Che è ipocrita evocare quanto è «complesso, dinamico e in certe occasioni contraddittorio» il processo rivoluzionario al fine di nascondere l’opportunismo dei suoi scaltri strateghi che dividono i mezzi di una lotta dai suoi obiettivi (ma la separazione non era la logica del potere?).
Scaraventati in una realtà esterna aberrante e paurosa, gli anarchici sono segnati dal marchio della diversità. Hanno un corpo sgraziato, una grossa testa sempre tra le nuvole, un linguaggio barbaro, a ricordar loro di non appartenere di diritto alla compiaciuta comunità di Papà Popolo e Mamma Politica. In un mondo totalmente plasmato dall’autorità e dalla merce, sono dei perdenti nati. Sofferenze e frustrazioni segnano il percorso del Brutto Anatroccolo anarchico, il quale è consapevole delle difficoltà, della fatica, e anche delle scarse probabilità di riuscire un giorno a diventare cigno. Ma non ha alternative, non può e non intende rimuovere e rinnegare ciò che è. Rifiuta l’illusione di un mondo bonificato da un cambio di colore e un po’ di politica, di una libertà dove non ci sia consapevolezza. Disprezza l’aberrazione di una esistenza umana misurata dalle strategie di mercato.
La facile affermazione di una forma di vita più beota che gioiosa è un ben miserabile affare, soprattutto considerato che il prezzo da pagare è la perdita di ogni individualità ed autonomia, unita all’impossibilità di progredire in una conoscenza volta alla comprensione di sé e di quanto ci circonda.
A noi non interessa «un’altra maniera di abitare il mondo». Noi sogniamo, noi desideriamo, noi vogliamo realizzare un mondo che sia tutt’altro, dove la vita sia tutt’altra, dove i rapporti siano ben altri. «Rara avis in terris nigroque simillima cycno» è la frase del poeta latino Giovenale da cui è tratta la locuzione che nelle discussioni filosofiche del XVI secolo veniva utilizzata per indicare un fatto ritenuto impossibile o perlomeno improbabile: il cigno nero.
L’incontro tra anarchismo e insurrezione, l’unica possibilità di spazzare via ogni autorità pur minuscola dalla faccia della terra.
[26/1/18]