(…) Invocando la storia con l’idea di soccombervi, abdicando in nome dell’avvenire, essi sognano, per il bisogno di sperare contro se stessi, di vedersi sviliti, calpestati, “salvati”…un simile sentimento condusse l’antichità a quel suicidio che fu la promessa cristiana.

L’intellettuale stanco riassume le deformità ed i vizi di un mondo alla deriva. Egli non agisce, patisce; se si volge all’Idea di tolleranza, non vi trova l’eccitante di cui ha bisogno. Il terrore, si, glielo procura, così le dottrine delle quali è il risultato. È forse la sua prima vittima? Non se ne lamenterà. La sola a sedurlo è la forza che lo stritola. Voler essere libero significa voler essere se stesso; ma è esasperato di essere se stesso, di camminare nell’incertezza, di vagare attraverso la verità. “mettetemi le catene dell’illusione”, sospira, mentre dice addio alle peregrinazioni della conoscenza. Così, si getterà a capofitto in qualsiasi mitologia che gli assicuri la protezione e la pace del giogo. Poiché rinuncia all’onore di addossarsi le proprie ansie, egli si imbarcherà in imprese dalle quali si aspetta sensazioni che non può attingere da se stesso, di modo che gli eccessi della sua stanchezza consolideranno le tirannie. Chiese, ideologie, polizie: cercatene l’origine nell’orrore che egli nutre verso la propria lucidità piuttosto che nella stupidità delle masse. Quest’aborto si trasforma, in nome di un’utopia da menefreghista, in becchino dell’intelletto, e, persuaso di far cosa utile, prostituisce quell’ “inebetitevi” che fu la tragica esortazione di un genio solitario come Pascal.

Iconoclasta sconfitto, disgustato dal paradosso e dalla provocazione, alla ricerca dell’impersonalità e della consuetudine, semiprostrato, maturo per il dozzinale, egli abdica alla propria singolarità e si riconcilia con la moltitudine. Più nulla da rovesciare se non se stesso, ultimo idolo da abbattere…Le proprie rovine lo attirano. E mentre sta a guardare, modella le fattezze dei nuovi dèi o ripristina gli antichi battezzandoli con nomi nuovi.. Non più in grado di sostenere la dignità di essere difficile, sempre meno incline a soppesare la verità, si contenta di quelle che gli vengono offerte. Sottoprodotto del suo Io, striscia ormai -demolitore infiacchito- davanti agli altari o a ciò che li sostituisce. Al tempio come al meeting il suo posto è là dove si canta, dove la sua voce è sovrastata, dove non sente più se stesso. Parodia del credere? Poco gliene importa poiché comunque non aspira che a desistere da se stesso. A un ritornello è approdata la sua filosofia, in un Osanna è naufragato il suo orgoglio!

(…) Se la forza è contagiosa, la debolezza non lo è di meno: ha il suo fascino; non è facile resisterle. Quando i debilitati sono una moltitudine,

vi incantano, vi schiacciano: Quale mezzo adottare contro un continente di abulici? E perché il mal di volontà è per giunta piacevole, di buon grado ci si abbandona ad esso.

Niente di più dolce che trascinarsi al di qua degli avvenimenti; e niente di più ragionevole. Ma senza una buona dose di demenza, nessuna iniziativa, nessuna impresa, nessun gesto. La ragione: ruggine della nostra vitalità. È il pazzo che è in noi ad obbligarci all’avventura; se ci abbandona siamo perduti (…) Nono si può essere insieme normali e vivi.

(…) Sussisto ed agisco in quanto sragiono, in quanto mando ad effetto i miei vaneggiamenti.

Se divento sensato, ecco che tutto mi intimidisce: scivolo verso l’assenza, verso sorgenti che non vogliono scorrere, verso quella prostrazione che la vita dovette conoscere prima di concepire il movimento, accedo a furia di viltà alla natura intima delle cose, interamente costretto ad un abisso di cui non so che cosa fare poiché mi isola dal divenire.

Un individuo, al pari di un popolo, di un continente, si estingue quando gli ripugnano i progetti e gli atti sconsiderati, quando, invece di arricchirsi e di precipitarsi verso l’essere, vi si rintana, vi si trincera (…)

(…) Mentre quella [la stanchezza] alla quale assistiamo, nella sua rigorosa mediocrità, non possiede nessuno di quei prestigi he illudono. Troppo flagrante, troppo sicura, essa evoca un male il cui ineluttabile automatismo rassicurerebbe paradossalmente sia il paziente che il medico: agonia in debita forma, esatta come un contratto, agonia stipulata, senza capricci né lacerazioni, ben degna di quei popoli che, non contenti d’aver respinto i pregiudizi che stimolano la vita, respingono anche quello che la giustifica e la costituisce: il pregiudizio del divenire.