Da Finimondo:
Lo sappiamo che è uno sciocco ed inutile intermezzo terminologico, ma tant’è. Più passa il tempo e più siamo costretti ad interrogarci sul significato di una parolina di otto lettere di cui si fa un uso disinvolto, soprattutto qui in Italia: compagno. Pare che derivi dal latino medioevale «companio», termine composto dalla preposizione «cum» e dal sostantivo «panis». Compagno è colui che mangia lo stesso pane, quasi un intimo commensale o comunque chi partecipa allo stesso vitto.
Si tratta di un termine che da qualche tempo è diventato imbarazzante, se non sospetto, per lo meno in ambiti sovversivi. Da quando qui si è diffusa la mania delle cene popolari, dove attorno allo stesso desco ci si può trovare pressoché chiunque, questa parola ha assunto tratti decisamente nauseanti. Vien da invidiare la maggiore precisione semantica adottata oltralpe, dove fra gli anarchici vige una precisa differenza fra camarades e compagnons. I primi sono genericamente tutti coloro che fanno parte del cosiddetto Movimento, i secondi invece sono quelli più vicini ed affini. Ma è solo con questi ultimi che si spezza e si mangia lo stesso pane.
Ciò spiega la nostra indifferenza, che si sta tramutando in fastidio, quando ci sentiamo chiamare compagni dai vari militanti ed attivisti che infestano questo pianeta, quale che sia il colore della loro bandierina. Che siano anarchici per cui il rifiuto della politica è solo un’opzione praticabile in mezzo a tante altre (petizioni o sabotaggi, tutto fa brodo), o stalinisti per cui la risposta alla repressione deve essere unitaria (basta che il ritornello sia quello della difesa dei diritti), il risultato non cambia: chi è che chiamano compagni? Noi?
Si sbagliano di grosso. Noi non siamo loro compagni, loro non sono nostri compagni. Il pane della rivolta non ha lo stesso sapore di quello delle istituzioni. Il pane dell’etica non ha la stessa fragranza di quello della politica. Il pane dell’autonomia non ha lo stesso colore di quello del gregarismo. Magari talvolta, visti da lontano, possono anche sembrare simili. Ma basta avvicinarvisi per accorgersi dell’abissale differenza che li separa. Tutt’altra cosa.
Chi siede alla stessa tavola e mangia lo stesso pane di magistrati e parlamentari, preti e giornalisti, dissociati e indicatori di polizia, autoritari e dottori della mente, sa bene che è solo e soltanto questa bella gente che può chiamare «compagno». Quanto a noi, per rompere la solitudine i nostri compagni preferiamo andare a cercarli altrove, fra i ladri del fuoco, gli oltraggiatori dei poteri pubblici, i sognatori in piedi, i nottambuli furiosi, i seduttori di suore, gli abbrutiti dal vizio, i dilettanti del cinema clandestino, i cacciatori di fragole selvagge, gli arringatori di nuvole, i teppisti del verbo, i lustratori di stelle, i brucatori del vello d’oro, gli ubriaconi di assoluto… e tutti i vagabondi dello spirito che non faranno mai l’inchino davanti alle persone dabbene.
Questi, e solo questi, sono i nostri compagni.