kubin dominioSe si sente raccontare qualcosa di stupefacentee di molto lontano dall’esperienza quotidiana, rimane sempre in noi un ultimo dubbio. E questo senz’altro è un bene. Altrimenti saremmo lo zimbello di ogni persona che abbia la parlantina sciolta o del primo imbroglione che capiti (…)

Alfred Kubin . “l’altra parte”

Una pietra è una pietra, nominarla rimanda immediatamente ad un oggetto con determinate caratteristiche le quali, seppur generali individuano precisamente un corpo fisico la cui immagine è strettamente legata al concetto che la rappresenta all’intelletto; vedendo una carota nessuno si sognerebbe di chiamarla sasso o di affermare di trovarsi innanzi ad esso e, qualora lo facesse, nei più provocherebbe un sorriso compassionevole.

– Niente di più semplice?

Forse…almeno fino a quando non si decidesse di addentrarsi nella selva oscura dei così detti movimenti radicali, di cambiamento dell’esistente, rivoluzionari oppure…scegliete voi la prosopopea che preferite. Varcato il confine delle sedi di partito, e ancor più che in esse, tutto diventa fumoso, scivoloso, oscuro…ad oggi fra buona parte dei novelli Spartaco un sasso è una carota, ma anche un albero o una casa, o qualsiasi altra cosa, il tutto “nel rispetto reciproco delle idee e delle sensibilità altrui…” e del risultato finale che si vuol perseguire (quale sia poi questo orizzonte non è poi così chiaro…).

– Il linguaggio del dominio

Da sempre il dominio ha utilizzato il linguaggio e lo ha plasmato in modo da renderlo più gestibile, e con esso rendere più ammansibili e mansueti gli individui spogliati di uno dei mezzi fondamentali di comprensione/espressione di ciò che li circonda.

Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, eppure come tante evidenze l’utilizzo del linguaggio come strumento di dominio e costruzione di immaginari funzionali a chi ne detiene la configurazione non è stato forse del tutto espunto, almeno in relazione a come certe dinamiche strutturali al dominio “legalmente riconosciuto” si riproducano più o meno spontaneamente anche all’interno degli ambiti “di lotta” dove soprattutto -ma non solo- gli agenti del dominio in potenza, alfieri dell’autoritarismo rosso -ma non solo- lavorano consapevolmente alla spoliazione di senso delle parole e del conseguente linguaggio con l’intento di creare un immaginario a loro conforme e da loro gestibile.

In questo quindi anche all’interno dei movimenti è facile ravvisare come i meccanismi del dominio in essere vengano utilizzati tali e quali per creare semplicemente consenso limitando al minimo le possibilità ed i pericoli di contestazione.

– La gestibilità prima di tutto!

Una vecchia canzone del Banco del mutuo soccorso in una strofa dice “quel che si vede, è!” , bel residuo di positivismo! Invero ciò che si vede “è” in quanto suscettibile sia della percezione che se ne ha, sia della possibilità di essere “detto”; là dove non esistessero parola o linguaggio per esprimere l’oggetto lo stesso rimarrebbe oggettivamente esistente, ma soggettivamente incomprensibile e l’impossibilità di articolare un discorso che esprimesse l’essenza dell’oggetto in relazione alla percezione che si ha di esso renderebbe ogni tentativo di esplorazione “metafisica” e di relazione oggetto/soggetto impossibile.

Ciò è stato ben compreso da tempo dagli agenti del dominio ed infatti l’attacco che hanno subito le parole disintegrate nel senso, ed il linguaggio semplificato e banalizzato all’estremo, si è fatto sempre più violento e scientificamente elaborato.

Alcuni dei mezzi di creazione del consenso da sempre utilizzati hanno assunto, nella società del 2.0 e della pubblicità circolare, un importanza ed un ruolo centrale nella creazione immaginario funzionale e di spoliazione di senso, con il risultato di creare utenti e scongiurando quanto più possibile l’insorgenza di individui dotati di strumenti di messa in discussione dell’esistente.

Sono conscio che un linguaggio neutrale non è mai esistito e non è forse nemmeno auspicabile, ma ad essere messo in discussione ed in pericolo non è tanto l’evidenza del discorso “partigiano” ma la sua effettiva possibilità/pensabilità.

– La parola contro la parola

Chi come me comincia ad avere una certa età, non tanto anagrafica quanto -passatemi il pessimo termine- militante, avrà sentito dire miriadi di volte che “dobbiamo parlare alle persone in maniera comprensibile” e, chi più chi meno, più o meno d’accordo sulla necessità di “parlare” a chi che sia (personalmente non mi sento né apostolo, né tanto meno prete…), ha sempre ritenuto di non dover dire nulla riguardo la sensatezza di questa affermazione o comunque che ci fossero cose più importanti della quali, al momento, occuparsi…ebbene io al contrario penso che la ricorsa al “linguaggio comune”, essendo quest’ultimo il risultato di un progetto di mutamento scientifico dell’individuo (1) in “utente” (2), non possa che essere tremendamente dannoso se l’orizzonte cui ci si rivolge è quello della liberazione totale dalle pastoie dell’autorità e del dominio non facendo da un lato che riprodurre gli schemi mentali indotti dalla società del controllo confermandoli e incentivandoli, dall’altro allontanando ancora di più dal “qui ed ora” ogni possibilità di distruzione dell’esistente e quindi della creazione di possibilità (3).

Ovviamente tutto ciò ha un senso se come detto l’orizzonte è quello della liberazione selvaggia, ma se la prospettiva è più banalmente quella di sostituire autorità ad autorità allora non è poi così necessario combattere i metodi di riproduzione del consenso utilizzati dall’avversario, né quelli di creazione di immaginario anzi, come ci insegnano sapientemente alcuni “amici” -non certo miei- francesi o qualche innamorato dell’investitura popolare in salsa italiota, certi mezzi oltre a non essere da combattere sono altresì da conoscere ed utilizzare, sia contro l’avversario che contro quelle realtà o individui che non si sottomettano volontariamente ed acriticamente alla liturgia di questi preti laici o politici senza troppi rimborsi elettorali (per ora).

Largo alla politica! (4).

Mi tocca quindi assistere, e non sono l’unico, al triste spettacolo dell’utilizzo del linguaggio pubblicitario, dello slogan, della ripetizione circolare applicato agli ambiti di lotta, dove ormai la ricerca del consenso a tutti i costi, l’ammiccamento seducente, la seduzione forzata, fanno si che non si ricerchino più affini e complici ma tifosi ed ultras, gli uni pronti a sostenere il movimento del cuore, gli altri a battersi per una fede che assomiglia appunto sempre più a quella di una squadra di calcio. La ponderazione individuale è sostituita dall’emozionalità collettiva, né più né meno di quanto possa accadere a seguito di una campagna politico/pubblicitaria ben riuscita. Negli anni ’80 la sorte dei piccoli affamati del “biafra” sembrava -grazie e soprattutto al bombardamento mediatico- la prima preoccupazione delle “brave persone”, certo che se poi aveste chiesto agli stessi dove fosse questo “biafra”…

– Basta osservare senza nemmeno troppa attenzione ciò che ci sta innanzi.

La violenza della privazione del discorso e l’assassinio della parola.

Nello specifico mi voglio soffermare solo un attimo su qualche esempio lampante della situazione nella quale ci stiamo dibattendo.

Per la creazione di consenso negli utenti dello spettacolo dell’antagonismo sociale è necessario configurare un immaginario consono e funzionale ai progetti dei suoi manovratori più o meno occulti; per fare ciò i seri assertori del camaleontismo militante, del “realismo” politico, dell’uso strumentale e machiavellico di ogni mezzo necessario per raggiungere lo scopo del dominio -per ora solo in potenza- non si fanno scrupoli ad utilizzare gli strumenti dell’avversario, non più nemico (5).

La ristrutturazione linguistica è la medesima, come medesima è la destituzione di senso del discorso in favore di una ricostituzione fraseologica aconcettuale mutuata dalla pubblicità.

L’utilizzo massiccio dello slogan è comune ad entrambi gli ambiti del dominio, sia in essere o in potenza.

– Alé-oh-oh!

Lo slogan, nella società dove tutto è spendibile ed in vendita, è come una sorta di vetrina luccicante dove l’utente viene messo innanzi all’evidenza del prodotto nel quale effettivamente “ciò che si vede è” senza che si debba perdere troppo tempo a ricercarne il senso o le connessioni profonde: tutto è li in mostra.

Anche nell’ambito del militante lo slogan serve per creare un immaginario dove la parola perde di senso complesso per acquisire soltanto una superficialità spettacolare ed accattivante utile sia per attirare consumatori di emozioni forti e creare utenza militante, sia per tagliare fuori ogni possibile discorso di approfondimento ed indagine complessa. Ogni tentativo di riflessione e di discorso è bollato quindi come perdita di tempo o -nel caso qualche individuo fisse troppo insistente nel pensare e soprattutto ad esprimere le conseguenti idee- come “polemica”.

Lo slogan mortifica il senso del lògos (6) privandolo del significato profondo delle parole e delle loro interconnessioni che formano linguaggi complessi in luogo di una sorta di eccitazione emozionale dove come in una vetrina o il banco di un mercato tutto è sistemato sapientemente davanti agli occhi dell’utente/consumatore su uno stesso piano che si auto-evidenzia in quanto “posto di fronte”, appiattendo il concetto (7) su un unico livello di profondità, inaridendolo e banalizzandolo, rendendo superficiale ogni tipo di significato (8) che viene confuso ed individuato con il suo significante (9) il discorso diviene proposta, quindi non c’è più da discutere ma da accettare.

Il paradigma pubblicitario applicato all’ambito etico serve null’altro che a creare fruitori di pensiero pre-ordinato, non ammette discussione ma richiede accettazione, non incentiva l’approfondimento, ma trasla il significato nella sua immagine (10).

Il fascismo dell’immagine è servito su ogni tavolo, sia esso apparecchiato con la tovaglia del dominio tecno-capitalista o con quella rossa, rossonera, ecc…, della rivoluzione politica o sociale.

Mi si obietterà che lo slogan ha sempre fatto parte del bagaglio culturale e retorico di ogni moto o movimento rivoltoso e/o rivoluzionario ed in parte è vero, questo è in passato servito da strumento di comporto -così come tanti altri- ad un corpus etico ed ideologico mentre ad oggi ha assunto una sorta di evidenza in sé, annullando il significato nel significante, il senso delle parole nella loro rappresentazione d’immagine, l’articolazione del discorso con lo sfolgorio dell’iperbole.

Questo slittamento funzionale dello slogan come mezzo di auto-rappresentazione e propaganda è in parte figlio del mezzo stesso (11), ma in una percentuale però forse più importante della capacità che ha il dominio di fagocitare, digerire e rimodulare a pro suo le “armi” del nemico sia riutilizzandole, sia destituendole di senso, sia ribaltandone i segni ed il significato. A fronte di ciò alcuni fini analizzatori della realtà hanno prefigurato e oltre la prefigurazione hanno praticato e praticano la tattica dell’utilizzo tecnico dei mezzi del nemico in un circolo vizioso che sembra non avere fine ma che ha come scopo ultimo la conquista o la riconquista di rapporti di forza nei confronti degli avversari.

Come e accanto allo slogan anche la ridondanza concettuale (di un concetto asfittico e di superficie) diviene ridondanza dell’immagine che nella ripetizione ossessiva assume senso a sé, senza bisogno che il pericolo dell’indagine intellettuale rischi di intaccarla, offrendo all’utente “la soluzione giusta per lui”, l’immaginario cui conformarsi e occasionalmente divenire avversario. Nasce una sorta di mantra che si autovalorizza, una preghiera o inno -a seconda dei gusti di chi lo pronuncia- da ascoltare, imparare e ripetere, senza indagarne senso o implicazioni che sono già lì in vetrina, contenuti, esemplificati, definiti da quelle tre o quattro parole messe ad arte in fila, tre o quattro parole bidimensionali, sterili e destituite di senso (12).

La ripetizione costante di uno slogan o di un concetto, lungi dal rappresentare una realtà da cui discendono, la creano ex novo; per fare ciò c’è bisogno di una eco costante, ossessiva, di un “effetto larsen” contenutistico, il linguaggio deve far uso di ogni figura retorica possibile al fine di creare accettazione, l’utilizzo dell’iperbole è costante, come quella del paradosso, o l’uso frequente degli accrescitivi. Così facendo qualunque “concetto” può assurgere a verità granitica ed immutabile, tutto sta nella capacita di chi lo trasmette e dei mezzi che quest’ultimo ha a disposizione (13) e questo punto è uno dei cardini di forza del dominio in essere verso chi avesse l’assurda presunzione di poterlo combattere utilizzando gli stessi mezzi di cui esso si è dotato, nel caso specifico quindi quello della comunicazione pubblicitaria.

– Va tra poco in onda la rivoluzione, non cambiate canale!

Basterebbe semplicemente leggere applicando un minimo di senso critico molti dei comunicati, degli appelli, dei libelli prodotti in seno ai movimenti per rendersi conto di come questi ultimi, ed i loro ideologi, abbiano interiorizzato e fatto propri gli “strumenti del comunicare” del dominio, come il Lògos sia annichilito dalle immagini e come ogni afflato di libertà intellettuale venga frustrato ed attaccato qualora si spingesse troppo oltre “il confine stabilito” dal potere, sia che esso si rappresenti come stato, volontà popolare o “intelligenza collettiva” (qualsiasi cosa essa sia…).

L’accettazione e l’utilizzo degli strumenti del nemico ne legittimano la bontà e l’esistenza, il mezzo è considerato privo di valenza etica e acquista valore in luogo della sua capacità di raggiungere uno scopo dato, in un funzionalismo tecnico in tutto e per tutto inserito nel quadro delle logiche dell’ideologia del capitale; la rivoluzione dell’immagine brucia il carbone del linguaggio per trasformarlo in energia del dominio e della gerarchia.

L’attacco alla parola, al linguaggio, non sono una novità; com’è noto già Orwell in “1984” prefigurava un mondo dove il linguaggio veniva utilizzato come strumento fondamentale del dominio sia attraverso la sua rimodulazione costante sia in virtù della trasformazione del lògos da strumento di indagine dell’esistente a mezzo di comunicazione asettica di decisioni terze, nonché in un ribaltamento sostanziale della parola nel suo contrario.

La capacità di prefigurazione, l’immaginazione, sono inibite in luogo di un “reale” che è confermato come tale dall’immagine che mostra di sé posta sempre innanzi agli occhi dell’utente, utente sempre più capace soltanto di accettazione supina via via che la sua capacità di articolazione e comprensione del discorso si fanno più tenui.

L’immagine che diventa sensazione, la sensazione che diventa convinzione in una sorta di sinestesia del dominio sono il motivo che porta molti a concepire questa realtà come l’unica possibile e questo perché l’utente non è più in grado di comprendere i simboli (14) che lo circondano poiché è privato della capacità di interpretarli.

In tutto ciò chi pensasse di poter distruggere il dominio utilizzandone a pro suo i mezzi o è ingenuo o mente, volendo solo sostituire potere a potere e questo perché non esiste una neutralità del mezzo; se una matita è pensata per scrivere, senza particolare interesse se si tratterà di una poesia o di una firma su una dichiarazione di guerra, il mezzo immateriale del linguaggio del dominio è pensato e strutturato al fine di perpetuare il dominio -materiale e intellettuale- stesso, come credere di distruggere la sua auto-poiesi utilizzando uno dei suoi strumenti principe, uno dei suoi maggiori anticorpi contro la pensabilità, ancor prima della possibilità della ribellione distruttrice?

Se il richiamo ad un linguaggio della realtà, di questa realtà, non stupisce negli attori della scena politica, che in ultima istanza non vogliono altro “che se ne vadano tutti” (15) senza mettere in discussione la struttura di potere ma soltanto chi la gestisce in un dato momento, prefigurando che la sua gerenza sia passata di mano ad amministratori più “degni”, questo è inaccettabile -almeno per chi scrive- negli ambiti che storicamente hanno sempre sbandierato il vessillo nero della “distruzione dell’esistente” e che da un po di tempo a questa parte, almeno in Italia, sembra che abbiano subito una fascinazione incomprensibile per queste realtà della reazione “neo-democratica”.

Concludendo…

Non si tratta di discutere d’un pedagogismo di forma ottocentesca che non mi interessa minimamente, Né di proporre soluzioni o percorsi di “redenzione linguistica”, sia chiaro che se il dominio -di ogni tipo ed in ogni ambito- porta avanti una distruzione della parola e del discorso e quindi delle possibilità di dire e pensare la rivolta, trova terreno fertile nell’accettazione volontaria della passività e della schiavitù; non mi interessano le assoluzioni di massa del povero volgo ingannato e manovrato dal potere, perisca pure chi non alza il capo! Il senso di questo scritto risiede tutto nella necessità incontenibile di esprimere ciò che vedo, sento e penso, nella presunzione di poter aggiungere un granello di polvere da sparo nella pentola esplosiva del pensiero iconoclasta di quei pochi che non si rassegnano ad essere “moltitudine” ma gridano forte al vento foriero di tempesta: “IO!”

1- indivìduo agg. e s. m. [dal lat. individuus «indiviso, indivisibile», comp. di in2 e dividuus «diviso», che traduce il gr. ἄτομος: v. atomo]. – Ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie. In biologia, ogni organismo animale o vegetale, uni- o pluricellulare, che non può essere suddiviso senza perdere le sue caratteristiche strutturali e funzionali

2utènte s. m. e f. [dal lat. utens -entis, part. pres. di uti «usare, godere»]. – Chi fa uso di qualche cosa, e in partic. chi usufruisce di un bene o di un servizio offerto da enti pubblici o privati, da imprese concessionarie

3- Qualcuno vorrebbe riformare l’esistente, creare mondi, offrire un pacchetto “tutto incluso” per il “post rivoluzione”, ovvero la sua aspirazione è quella di chi vorrebbe sostituire semplicemente le serrature del dominio, magari distribuendo qualche chiave in più (soprattutto a sodali e simili) ma lasciando sostanzialmente immutate le strutture gerarchiche, mentre chi vuole -pazzo!- semplicemente la deflagrazione di ciò che è stato e ciò che è con la sola prospettiva delle infinite possibilità che si dispiegherebbero innanzi agli individui liberati come un mare in tumulto, spumeggiante, terribile, pericoloso e splendido non può che anelare ad una distruzione totale e definitiva dell’esistente e delle sue relazioni di potere e dominio, oltre che del suo linguaggio e dei suoi paradigmi.

4- polìtica s. f. [femm. sostantivato dell’agg. politico (sottint. arte); cfr. gr. πολιτική (τέχνη)]. –

La scienza e l’arte di governare, cioè la teoria e la pratica che hanno per oggetto la costituzione, l’organizzazione, l’amministrazione dello stato e la direzione della vita pubblica; le norme, i principî, le regole della p.; scrivere, trattare, discutere di politica.

5- Avversario e nemico, non uso i termini come sinonimi e quindi è bene spiegare brevemente l’accezione che utilizzo per entrambi.

Come avversario intendo un antagonista del quale si riconosce il ruolo e con il quale si instaura una dialettica politica, con il quale si può scontrarsi ma allo stesso tempo cercare una mediazione nel riconoscimento comune del campo del contendere che è quello della politica; con il nemico invece non c’è dialettica, non c’è mediazione, le posizioni sono inconciliabili, non c’è riconoscimento reciproco ma solo conflitto volto all’annientamento della parte avversa, il campo non è quello della politica ma dello scontro inconciliabile di tensioni etiche liberanti contro la logica del dominio.

6- lògos s. m. [traslitt. del gr. λόγος, che è dal tema di λέγω «dire», con vocalismo o]. – Nel pensiero greco, il termine indica la «parola» come si articola nel discorso, quindi anche il «pensiero» che si esprime attraverso la parola.

7- Concetto filosofia/Pensiero, in quanto concepito dalla mente, più in particolare idea, nozione esprimente i caratteri essenziali e costanti di una data realtà che si forma afferrando insieme (lat. concipĕre = cum-capĕre, comprehendĕre) i vari aspetti di un determinato oggetto che alla mente preme aver presenti nel suo complesso.

8- significato Dal lat. significatus -us «senso, indizio». Il contenuto espressivo di parole, frasi, gesti e in genere di qualsiasi mezzo di comunicazione e di espressione.

9- significante In linguistica, nella definizione di segno formulata da F. de Saussure, l’immagine acustica o visiva, ossia l’elemento formale, la ‘faccia esterna’ del segno (quella interna è il significato) che consente, sul piano della lingua, di identificare le sue diverse realizzazioni foniche concrete che si collocano sul piano della parole.

10- immàgine (letter. imàgine) s. f. [dal lat. imago gĭnis]. Forma esteriore degli oggetti corporei, in quanto viene percepita attraverso il senso della vista.

11- Lo slogan ha in sé la possibilità di rendere subito “disponibile” un immaginario che si auto-evidenzia nell’immagine stessa, ma proprio questa possibilità espone i concetti ad una superficializzazione e al possibile confondimento del significante con la sua rappresentazione sintetica e concettualmente limitata. L’immagine dipinta dallo slogan può quindi assumere il ruolo di evidenza a sé, slegata dalle connessioni con l’impianto etico cui dovrebbe sottendere.

12- Destituire: con accezione propria, privo, mancante. Meno com., e di uso letter., con sign. più generico: opera destituita di qualsiasi valore; quella povera famiglia destituita di ogni umano soccorso (Foscolo); frasi destituite di senso (C. E. Gadda); e raro con la prep. da: ormai destituito da ogni velleità e ritegno (Pratolini).

13- L’utilizzo di queste tecniche di induzione “pavloviana” sono evidenti e considerate scontate da molti “sovversivi” se riferite all’ambito del dominio, questi ultimi vengono però come colti da improvvisa cecità intellettiva quando i medesimi mezzi sono utilizzati dai “soggetti collettivi” di “movimento” per accaparrarsi consenso con il medesimo scopo nemmeno troppo occulto di guadagnare terreno nella rincorsa al potere, e poco importa se si tratti di potere seguito dal suffisso “popolare”, sempre di dominio si tratta.

14- Simbolo: s. m. [dal lat. symbŏlus e symbŏlum, gr. σύμβολον «accostamento», «segno di riconoscimento», «simbolo», der. di συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere» (comp. di σύν «insieme» e βάλλω «gettare»)]. – Qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile, ma capace di evocarla attraverso qualcuno degli aspetti che caratterizzano l’elemento stesso, il quale viene pertanto assunto a evocare in partic. entità astratte, di difficile espressione

15- “Che se ne vadano tutti” una semplice frase ad effetto, uno slogan che ha fatto breccia nelle piazze più disparate e nelle “rivoluzioni” colorate di mezzo mondo, eppure nonostante la sua internazionalità non è un caso che questo piccolo mantra sia nato proprio nella vecchia Europa, luogo dove l’indagine sul discorso ha riempito caterve di libri.

Chi ha coniato lo slogan dev’essere certo un furbo partigiano della conservazione dell’esistente, un “sincero democratico” innamorato dell’autorità che probabilmente anela di conquistare.

Che se ne vadano tutti”, frasetta sentita anche in bocca ai nemici dell’autorità ma che l’autorità rivendica.

Perché lo slogan sarebbe autoritario? Molto semplice, basta dare il giusto significato alle parole ed alle connessioni -che formano il discorso- delle une con le altre.

Andarsene da un luogo significa spostarsi da un punto dato dove ci troviamo fisicamente, ad un altro punto più o meno preciso nel quale ci situeremo; ovviamente quando ci sposteremo da A a B il luogo appena lasciato rimarrà li, la sua esistenza non cesserà, ci sarà solo un poco più di spazio libero.

In politica questo “moto da/a luogo” presuppone quindi che la struttura di gestione dell’esistente rimanga intonsa e che venga soltanto abbandonata dai gestori del momento, ma siccome il dominio per essere tale necessita che non sussistano vuoti di potere l’assenza dello stesso deve essere riempita nel momento stesso nel quale si svuota, in termini più semplici se se ne andassero i gestori momentanei dell’autorità dovranno immediatamente subentrarne altri.

Quindi “che se ne vadano tutti” significa solamente la volontà di sostituire il potere vigente con uno più affine ai progetti di chi ha postulato l’assunto senza ovviamente intaccare minimamente le strutture di dominio, gerarchia, eterodirezione, repressione, ecc…, vigenti.

M.